Guru è un termine
sanscrito che significa "pesante" ed è etimologicamente il
corrispettivo del latino grauis e del greco barús. Che
sia passato a designare il "maestro spirituale" potrebbe
sembrare un’ironia del destino. Sembra di veder tratteggiare dalla
mano burlona del fato (o dal divino Gioco) un’immagine di compassata
gravità, da medici alla Molière, che disquisiscono su tutto senza
conoscere nulla (o che conferiscono iniziazioni da cui nessuno trarrà
nulla di utile, ma solo ulteriori legami e fasulle speranze). E poi,
in verità, la qualità della "pesantezza" è, rispetto alle tre
qualità principiali comunemente ammesse nella tradizione indù, propria
di tamas (oscurità) più che non di sattva (essenza) o di
rajas (emozione); ed
appartiene al kaliyuga (età dove il dado, kali, cade
sempre sul lato perdente, età dunque oscura, del ferro, la nostra)
più che al sattvayuga (età dell’oro), al tretayuga
(età dell’argento) o allo dvâparayuga (età del bronzo).
Nel raro caso dunque che
il guru sia un maestro autentico, e non un impostore più o meno
cosciente, allora è da intendersi come colui che si fa carico della
gravezza altrui, dell’altrui oscurità, per condurre alla luce. In
questo senso è greve, pesante: perché altri in lui si vedono, gravoso
carico, quali sono. Per questo il suo compito principale è quello di
aiutare il discepolo a raggiungere il Sadguru, la luce innata
che risplendendo come sole interiore farà germogliare il seme nascosto
nella cavità del cuore.
Tamaso mâ jyotir gamaya,
"Dalla tenebra fa’ ch’io vada alla luce" (Brhadâranyakopanishad,
I, 3, 28 [ed. Shastri]): così deve pregare colui che sinceramente
cerca il vero; e colui che in ciò può aiutarlo può esser detto
legittimamente guru. Ma in assenza di tale capacità, un guru
è solo un peso, che infligge pratiche e fedi a cui ben s’addice quanto
afferma Uppaluri Gopala: "Quello in cui voi credete è il risultato
della cieca accettazione di un’autorità; è roba di seconda mano".
Ed infatti "Quelle persone che vogliono dirigere la vostra vita
spirituale non possono essere sincere, esponendo chiaramente come
stanno le cose, perché vivono a spese della vostra paura, speculando
sulla vita futura e sul mistero della morte" nonché sul fatto
che "l’unica cosa che vi interessa veramente è voi stessi".
(1)
Sadguru, dunque, per
quanto talune sette siano giunte a così designare i propri capi
gerarchici, è propriamente l’interiore maestro (guru) che
insegna a trovare la propria essenza (sat), il polo o "centro
di gravità permanente" dell’esperienza umana non più scissa in una
molteplicità di scopi, ma unificata da un forte intento di metamorfosi
interiore. In questo senso può essere anche interpretata la ricerca,
da parte degli aderenti al sufismo, del "Polo dell’Epoca", ovvero del
santo, sempre ignoto ai più, che per la sua purezza vien considerato
il polo spirituale intorno a cui orbitano tutti gli altri santi della
sua epoca. Tale "Epoca" altro non è, secondo tale rilettura, se non
"questo mondo", ovvero l’esperienza ordinaria, e il "Polo" non altro
che il centro attorno a cui, se raggiunto, si potrà svolgere la
metamorfosi. Dice Marie-Louise von Franz che "Nel corso delle varie
epoche gli uomini hanno avuta una conoscenza intuitiva dell’esistenza
di tale centro interiore. I Greci lo chiamavano l’intimo daimon
dell’uomo [cfr. il dèmone di Socrate]; in Egitto, esso trovava
espressione nel [...] Ba; e i Romani lo veneravano come il
genius innato in ogni individuo". (2)
Tale intima guida corrisponde
inoltre all’"Uomo Universale" di cui parla il sufismo, a proposito del
quale Titus Burckhardt dice che "là ove la Conoscenza si unisce al
proprio essere, e dove l’Essere conosce sé nella sua immutabile
attualità, non si ragiona più dell’uomo. Lo spirito in proporzione al
suo profondarsi in tale condizione, si fa identico, non all’uomo
individuale, ma all’Uomo universale (al-insân al-kâmil), che
costituisce l’unità intrinseca d’ogni creatura. [...] L’Uomo
universale non è realmente separato da Dio; è come il Suo Volto nelle
creature. Per il tramite dell’unione con lui, lo spirito s’unisce a
Dio". (3) Analoghe tradizioni sono presenti un po’
ovunque, e tutte indicano che nel processo di riunificazione
interiore, l’uomo viene reintegrato in una condizione più che terrena,
di Adamo non più decaduto, che dapprima si mostra quale interiore
guida. E che tale guida non sia un maestro in carne ed ossa lo dice
anche con molta chiarezza Çrî Nisargadatta Mahârâj: "Il maestro
esterno (guru) è solo una pietra miliare. La vera guida (sadguru)
è il sé dentro di te, ossia te stesso. Solo il maestro interiore ti
condurrà allo scopo, perché lui è lo scopo". (4)
Marie-Louise von Franz dice a
questo proposito che ad un certo stadio dell’evoluzione interiore si
rivela "una nuova raffigurazione simbolica, il sé, il nucleo più
centrale della psiche. Nei sogni della donna questa zona focale viene
rappresentata, generalmente, tramite raffigurazioni femminili di
altissimo livello - così, ad esempio, una sacerdotessa, una maga, la
madre terra, la dea dell’amore o della natura. Se si tratta di un
uomo, invece, essa sarà simbolizzata nella figura del maestro o del
custode (un guru indiano), del vecchio saggio, dello spirito
della natura, e così via". (5) Per quanto sia forse
incauto assimilare questa tappa del "processo d’individuazione"
junghiano alla scoperta del Sadguru, la somiglianza è tuttavia
notevole, abbastanza da giungere alla conclusione che vi debbono
essere nella forma umana strutture psichiche (ovvero "sottili")
appositamente predisposte per l’accoglimento dell’esperienza del
Sadguru.
Secondo il kundalinîyoga,
è una volta ottenuta la potestà dell’âjñâcakra (centro
dell’autorità, o del comando) che si stabilisce un rapporto costante
col Sadguru, "che è Paramaçiva [Çiva come
Immanifesto], al quale il "Sé" è identico in realtà" (come dice Guénon
commentando Avalon nel suo scritto sul kundalinî-yoga).
(6) Finisce a questo punto ogni soggezione verso i
maestri terreni, per cui si nutre umano rispetto ma che in nessun modo
possono più interferire con le scelte dello yogî, che obbedisce
ormai solo al comando (âjñâ) del Sadguru. L’âjñâcakra,
spiega Avalon, è infatti "chiamato così perché è qui che si riceve,
dal di sopra, il comando (âjñâ) del Guru". (7)
Di tale "comando" Guénon afferma
che "corrisponde al "mandato celeste" della tradizione estremorientale"
e che "d’altra parte, la denominazione di âjñâcakra potrebbe
essere resa esattamente in arabo con maqàm al-amr [stazione del
Comando], indicando che là è il riflesso diretto, nell’essere umano,
del "mondo" chiamato `âlam al-amr [mondo del Comando], al
medesimo modo che, dal punto di vista "macrocosmico", questo riflesso
si situa, nel nostro stato d’esistenza, nel luogo centrale del
"Paradiso terrestre"". (8)
Dice ancora Guénon che "la
"localizzazione" di questo chakra è in rapporto diretto col "terzo
occhio", che è l’"occhio della Conoscenza" (Jñâna-cakshus); il
centro cerebrale corrispondente è la ghiandola pineale, che [...]
riveste un ruolo particolarmente importante come organo di connessione
con le modalità estracorporee dell’essere umano". La "funzione del
"terzo occhio" si riferisce essenzialmente al "senso dell’eternità" ed
alla restaurazione dello "stato primordiale" (di cui pure abbiamo a
più riprese indicato il rapporto con Hamsa [l’Oca o
Cigno simbolo del Sé], sotto la forma del quale Paramaçiva è
detto manifestarsi in questo centro); lo stadio di "realizzazione"
corrispondente all’âjñâcakra implica dunque la perfezione dello
stato umano, e là è il punto di contatto con gli stati superiori, ai
quali si rapporta tutto ciò che è di là da questo stadio".
(9)
A questo proposito così dice del
Sadguru il versetto introduttivo del Pâdukâpañcaka: "Io
medito sul Guru nel Fiore di loto a mille petali [...]. Egli
sta nello Hamsa della testa. È lo Hamsa
stesso". (10) Infatti il Sadguru vien
raffigurato come sedente nel loto dai mille petali (sahasrârapadma),
irradiante una luce che va portata al cuore. È dunque una figura che
siede sopra la manifestazione, ad essa perciò parzialmente
estranea, e tuttavia percepibile a chi vi è immerso, purché questi
abbia sviluppato il "senso dell’eternità", ovvero, direbbe uno
gnostico, abbia ottenuto la percezione di ciò che eccede il presente "eone",
il che in linguaggio tantrico corrisponde alla manifestazione
effettiva dell’âjñâcakra.
Tale Sadguru si manifesta
poi nella realtà ordinaria in vari modi non facilmente riconoscibili,
sia conducendo verso il guru terreno, sia conducendo per altre
vie, spesso alquanto imprevedibili. In ciò differisce dal guru
terreno, il cui unico compito è invece proprio di portare al
Sadguru, che è lui stesso l’unica giustificazione reale (sat)
della sua funzione magistrale (guru).
Il Sadguru si può
manifestare negli upaguru, ovvero mediante uomini o situazioni
che costituiscano un occasionale ammaestramento; in questo senso anche
un impostore può fungere da upaguru, in quanto non le sue
intenzioni vengano utilizzate dal Sadguru, ma certi suoi lati
momentaneamente utili all’uomo sincero in ricerca. Upaguru può
insomma risultare qualunque cosa; si può anzi dire che per l’uomo
sincero qualsiasi vicenda o persona assume il ruolo di upaguru,
in quanto la sincerità stessa porta il Sadguru come principale
attore al centro della vicenda umana. Infatti "la vera fede consiste
nella sincerità", come recita il titolo di un’opera dello Sceicco Muhammad
at-Tâdilî.(11)
In casi più rari il Sadguru
si manifesta come guru irregolare, come una manifestazione
assai speciale, un personaggio che sconvolge le attese, propone enigmi
difficilmente risolvibili, dà spesso vita dove e mentre sembra
distruggere. Nell’Islàm viene indicato come al-Khidr
(oppure al-Khadir), il "Verde" o il "Verdeggiante"
(corrispondente ad Elia in ambito ebraico e a San Giorgio in talune
tradizioni siriache), (12) che appare nel Corano
(senza essere nominato, ma l’esegesi islamica è concorde) mentre
sottopone Mosè a prove che questi non supera, in quanto non sa
decifrarne né accettarne in silenzio le decisioni (Sura XVIII, 65-82).
(Louis Cattiaux - "Vergine Germinativa")
Essendo il "Verde", è collegato
al rinnovamento della primavera, inclusa quella interiore; è perciò il
Leone Verde che subentra dopo la "fase al nero" (opus nigrum)
dell’alchimia, cioè dopo la globale distruzione di tutte le finte
certezze che, indotte dall’ambiente, si ritengono erroneamente
proprie. È colui che dà impulso alla germinazione, che fa fiorire il
loto nello stagno fangoso, la santa percezione nel caos dell’abitudine
mentale, l’antica Filosofia nel luogo delle passioni servili.
Al-Khidr è l’altro Polo (indelimitabile) rispetto al Polo
dell’Epoca (capo e limite della gerarchia iniziatica nel sufismo); non
aiuta le strutture ed i loro aderenti bensì coloro che non fanno parte
di alcuna struttura, che talora ne stanno agli antipodi. In tal senso
è un messaggio fondamentale dell’Ignoto: non tutto sta nel nostro
emisfero, nelle nostre classificazioni, non tutto rientra nell’atteso.
Al-Khidr è il Maestro dell’Inatteso, sta di là dal Polo
dell’Epoca e contatta gli amici di Dio direttamente.
Per il fatto che non rientra
nella gerarchia, non viene preso quasi mai in considerazione dagli
esponenti di essa che, invero, se pur dicono di credervi, ne
restringono la sfera d’azione quanto più possibile. In effetti ogni
costruzione umana è limitata; ma Al-Khidr è fuor d’ogni
limite: lo Spirito soffia dove vuole.
Quel che vale in ambito
islamico, vale naturalmente anche altrove; anche tra gli indù, per
esempio, che parlano di una Çâmbhavîdîkshâ ovvero di una
"iniziazione conferita direttamente da Çiva", ben nota, dice
Agehananda Bharati citando diversi esempi, a causa della "presenza di
persone che soddisfano a tutti i requisiti fenomenologici del
siddha [il perfetto], o che hanno spontaneamente conseguito una
condizione spirituale che può altrimenti essere conseguita solo
attraverso il procedimento prescritto". (13)
La gerarchia terrena di
qualunque epoca e tradizione è costantemente piagata dall’appartenenza
ad essa di un congruo numero di ipocriti, che ostacolano grandemente
l’evoluzione interiore degli uomini sinceri imponendo loro pesi
insopportabili che loro stessi non portano (cfr. Luca XI, 46). Tale
condizione di sofferenza è ineliminabile, come da ogni nato è
ineliminabile il germe della morte. Il principio manifesto in
al-Khidr o nel Sadguru serve da correttivo a questa
situazione. E tale principio non è restio affatto dal manifestarsi; si
può invece dire che, rivelandosi come Maestro interiore, è l’origine
di tutti i cammini verso la verità.
Invero le tradizioni, le chiese,
le credenze sono come falci per raccogliere il grano; ma nel campo
sempre deve rimanere qualcosa da spigolare per il viandante affamato;
e talvolta costui è più ricco di chi ha effettuato il raccolto, o
addirittura ne costituisce il destino (il dharma), come nella
Bibbia Rut è il destino di Booz, sul cui campo ha spigolato, e che
sposa, insieme a lui generando gli antenati di Davide e quindi del
Messia. Per questo ogni tanto vi è chi si mette alla ricerca della
verità; quel po’ di mondo che ha assaggiato (le spighe abbandonate)
gli ingiunge di cercarne la fonte. In altri, agricoltori comuni, che
tutto il tempo raccolgono e trasformano, tale passione sembra che non
nasca.
E del resto è pur sempre un
cammino difficile. Non sorregge il pensiero, né il corpo, né la
tradizione, se già non si è acceso "da sé" il fuoco sacrificale
sull’altare del nostro essere, della nostra vita. Il mistero di questa
accensione è avvolto dal vuoto, dal nulla, da una suprema
inconsapevolezza. Nella Bhagavadgîtâ è l’Auriga "Nero" (Krshna)
che al "bianco" Ârjuna impone una guerra che la sua mente
rifiuta. La "fiamma d’amor viva" di cui parlava Juan de la Cruz,
(14) divampa imprevista e inattesa. Il Figlio
dell’Uomo, il Cristo interiore, "non ha dove posare il capo" (Matteo
VIII, 20) nella nostra natura ordinaria, perché invero non può
poggiare sul fenomeno transitorio della vita di questo mondo colui
che, nostro "capo", nostro vero maestro (Sadguru), Polo supremo
del nostro vivere, col dito, come Arpocrate, ci impone un arcano
silenzio, mentre ci indica la Tenebra immanifesta.
Dario
Chioli
Il
maestro, visitando la dimora del discepolo, ruppe tutto salvo una
bottiglia, poi bruciò ciò che poteva bruciare, eccetto le Sante
Scritture, in seguito spense le ceneri con dell’acqua, eccetto un
tizzone. Infine aprì tutte le finestre, eccetto quella che guardava
verso il Nord, poi uscì dal Sud senza dire una parola.
Louis Cattiaux, Il Messaggio Ritrovato, XXI-28'
NOTE |
_______________
(1)
Uppaluri Gopala, La mente è un mito - Conversazioni sconcertanti
con un uomo chiamato U.G.. Aequilibrium, Milano, 1990, pp. 15,
19, 20.
(2)
Carl Gustav Jung, Marie-Louise von Franz, Joseph L. Henderson, Jolande
Jacobi, Aniela Jaffé, L’uomo e i suoi simboli. Longanesi,
Milano, 1980, p. 146.
(3)
`Abd al-Karîm al-Jîlî, L’Uomo universale - Antologia dall’opera
Al-Insân al-Kâmil. A c. di Titus Burckhardt. Ediz. Mediterranee,
Roma, 1975, pp. 8-9.
(4)
Çrî Nisargadatta Mahârâj, Io sono Quello. Rizzoli, Milano,
1981. 2 volumi. Vol. I, p. 54. Perfettamente concordi sono le
affermazioni di Ramana Maharshi riportate da David Godman al
capitolo 8 ("Il Guru") di Sii ciò che sei - Ramana Maharshi e il
suo insegnamento (Il Punto d’Incontro, Vicenza, 1988).
(5) Von Franz, op. cit, p.
176.
(6) René Guénon, Études
sur l’Hindouisme. Éditions Traditionnelles, Paris, 1983, p. 39.
(7)
Arthur Avalon, Il Potere del Serpente. Ediz. Mediterranee,
Roma, 1968, p. 108.
(8)
Guénon, op. cit., nota a p. 39.
(9) Guénon, op. cit, pp.
39-40.
(10) Avalon, op.cit., p.
368. Riguardo alla localizzazione del Sadguru nel
sahasrârapadma, considerando che tale "loto" corrisponde al
riflesso nella natura umana degli stati superiori dell’essere,
pertanto del "Cielo", può essere curioso paragonare quanto dice Gesù
in Matteo XXIII, 8-10: "voi non fatevi chiamare rabbì, perché
uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non
chiamate nessuno padre sulla terra, perché uno solo è il Padre
vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare maestri, perché
uno solo è il vostro Maestro, il Cristo".
(11)
Quest’opera dello Sceicco Muhammad at-Tâdilî (Ad-Dîn an-nasîha)
è stata tradotta in francese e quindi in italiano con il titolo La
vita tradizionale è la sincerità nella "Rivista di Studi
Tradizionali", Torino, 1968, nn. XXVI-XXVIII-XXIX.
(12)
Cfr. A. Augustinovic, "El-Khader" e il profeta Elia.
Studium Biblicum Franciscanum, Gerusalemme, 1971.
(13)
Agehananda Bharati, La tradizione tantrica. Astrolabio-Ubaldini,
Roma, 1977, p. 160.
(14)
Cfr. Juan de la Cruz, Poesie. Trad. di Giorgio Agamben. Einaudi,
Torino, 1974, pp. 10-11.
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