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GURU E SADGURU
LA MANIFESTAZIONE DEL MAESTRO INTERIORE
[ Tratto dalla rivista mensile “Occidente Buddista”, n. 16, giugno 1997]
di Dario Chioli



 

Il servo fuggitivo e disprezzato che nutre misteriosamente il mondo è diventato il maestro fedele e preziosissimo che nutre in segreto gli eletti di Dio. Chi vedrà rilucere il verbo? Chi palperà la luce? Chi gusterà il profumo? Chi? Chi? Oh chi incarnerà il suo Signore in un cuore epurato?
                    Louis Cattiaux, Il Messaggio Ritrovato, XXI-28'

 

 

   Guru è un termine sanscrito che significa "pesante" ed è etimologicamente il corrispettivo del latino grauis e del greco barús. Che sia passato a designare il "maestro spirituale" potrebbe sembrare un’ironia del destino. Sembra di veder tratteggiare dalla mano burlona del fato (o dal divino Gioco) un’immagine di compassata gravità, da medici alla Molière, che disquisiscono su tutto senza conoscere nulla (o che conferiscono iniziazioni da cui nessuno trarrà nulla di utile, ma solo ulteriori legami e fasulle speranze). E poi, in verità, la qualità della "pesantezza" è, rispetto alle tre qualità principiali comunemente ammesse nella tradizione indù, propria di tamas (oscurità) più che non di sattva (essenza) o di rajas (emozione); ed appartiene al kaliyuga (età dove il dado, kali, cade sempre sul lato perdente, età dunque oscura, del ferro, la nostra) più che al sattvayuga (età dell’oro), al tretayuga (età dell’argento) o allo dvâparayuga (età del bronzo).

   Nel raro caso dunque che il guru sia un maestro autentico, e non un impostore più o meno cosciente, allora è da intendersi come colui che si fa carico della gravezza altrui, dell’altrui oscurità, per condurre alla luce. In questo senso è greve, pesante: perché altri in lui si vedono, gravoso carico, quali sono. Per questo il suo compito principale è quello di aiutare il discepolo a raggiungere il Sadguru, la luce innata che risplendendo come sole interiore farà germogliare il seme nascosto nella cavità del cuore.

  Tamaso mâ jyotir gamaya, "Dalla tenebra fa’ ch’io vada alla luce" (Brhadâranyakopanishad, I, 3, 28 [ed. Shastri]): così deve pregare colui che sinceramente cerca il vero; e colui che in ciò può aiutarlo può esser detto legittimamente guru. Ma in assenza di tale capacità, un guru è solo un peso, che infligge pratiche e fedi a cui ben s’addice quanto afferma Uppaluri Gopala: "Quello in cui voi credete è il risultato della cieca accettazione di un’autorità; è roba di seconda mano". Ed infatti "Quelle persone che vogliono dirigere la vostra vita spirituale non possono essere sincere, esponendo chiaramente come stanno le cose, perché vivono a spese della vostra paura, speculando sulla vita futura e sul mistero della morte" nonché sul fatto che "l’unica cosa che vi interessa veramente è voi stessi". (1)

  Sadguru, dunque, per quanto talune sette siano giunte a così designare i propri capi gerarchici, è propriamente l’interiore maestro (guru) che insegna a trovare la propria essenza (sat), il polo o "centro di gravità permanente" dell’esperienza umana non più scissa in una molteplicità di scopi, ma unificata da un forte intento di metamorfosi interiore. In questo senso può essere anche interpretata la ricerca, da parte degli aderenti al sufismo, del "Polo dell’Epoca", ovvero del santo, sempre ignoto ai più, che per la sua purezza vien considerato il polo spirituale intorno a cui orbitano tutti gli altri santi della sua epoca. Tale "Epoca" altro non è, secondo tale rilettura, se non "questo mondo", ovvero l’esperienza ordinaria, e il "Polo" non altro che il centro attorno a cui, se raggiunto, si potrà svolgere la metamorfosi. Dice Marie-Louise von Franz che "Nel corso delle varie epoche gli uomini hanno avuta una conoscenza intuitiva dell’esistenza di tale centro interiore. I Greci lo chiamavano l’intimo daimon dell’uomo [cfr. il dèmone di Socrate]; in Egitto, esso trovava espressione nel [...] Ba; e i Romani lo veneravano come il genius innato in ogni individuo". (2)

  Tale intima guida corrisponde inoltre all’"Uomo Universale" di cui parla il sufismo, a proposito del quale Titus Burckhardt dice che "là ove la Conoscenza si unisce al proprio essere, e dove l’Essere conosce sé nella sua immutabile attualità, non si ragiona più dell’uomo. Lo spirito in proporzione al suo profondarsi in tale condizione, si fa identico, non all’uomo individuale, ma all’Uomo universale (al-insân al-kâmil), che costituisce l’unità intrinseca d’ogni creatura. [...] L’Uomo universale non è realmente separato da Dio; è come il Suo Volto nelle creature. Per il tramite dell’unione con lui, lo spirito s’unisce a Dio". (3) Analoghe tradizioni sono presenti un po’ ovunque, e tutte indicano che nel processo di riunificazione interiore, l’uomo viene reintegrato in una condizione più che terrena, di Adamo non più decaduto, che dapprima si mostra quale interiore guida. E che tale guida non sia un maestro in carne ed ossa lo dice anche con molta chiarezza Çrî Nisargadatta Mahârâj: "Il maestro esterno (guru) è solo una pietra miliare. La vera guida (sadguru) è il sé dentro di te, ossia te stesso. Solo il maestro interiore ti condurrà allo scopo, perché lui è lo scopo". (4)

  Marie-Louise von Franz dice a questo proposito che ad un certo stadio dell’evoluzione interiore si rivela "una nuova raffigurazione simbolica, il sé, il nucleo più centrale della psiche. Nei sogni della donna questa zona focale viene rappresentata, generalmente, tramite raffigurazioni femminili di altissimo livello - così, ad esempio, una sacerdotessa, una maga, la madre terra, la dea dell’amore o della natura. Se si tratta di un uomo, invece, essa sarà simbolizzata nella figura del maestro o del custode (un guru indiano), del vecchio saggio, dello spirito della natura, e così via". (5) Per quanto sia forse incauto assimilare questa tappa del "processo d’individuazione" junghiano alla scoperta del Sadguru, la somiglianza è tuttavia notevole, abbastanza da giungere alla conclusione che vi debbono essere nella forma umana strutture psichiche (ovvero "sottili") appositamente predisposte per l’accoglimento dell’esperienza del Sadguru.

  Secondo il kundalinîyoga, è una volta ottenuta la potestà dell’âjñâcakra (centro dell’autorità, o del comando) che si stabilisce un rapporto costante col Sadguru, "che è Paramaçiva [Çiva come Immanifesto], al quale il "Sé" è identico in realtà" (come dice Guénon commentando Avalon nel suo scritto sul kundalinî-yoga). (6) Finisce a questo punto ogni soggezione verso i maestri terreni, per cui si nutre umano rispetto ma che in nessun modo possono più interferire con le scelte dello yogî, che obbedisce ormai solo al comando (âjñâ) del Sadguru. L’âjñâcakra, spiega Avalon, è infatti "chiamato così perché è qui che si riceve, dal di sopra, il comando (âjñâ) del Guru". (7)

  Di tale "comando" Guénon afferma che "corrisponde al "mandato celeste" della tradizione estremorientale" e che "d’altra parte, la denominazione di âjñâcakra potrebbe essere resa esattamente in arabo con maqàm al-amr [stazione del Comando], indicando che là è il riflesso diretto, nell’essere umano, del "mondo" chiamato `âlam al-amr [mondo del Comando], al medesimo modo che, dal punto di vista "macrocosmico", questo riflesso si situa, nel nostro stato d’esistenza, nel luogo centrale del "Paradiso terrestre"". (8)

  Dice ancora Guénon che "la "localizzazione" di questo chakra è in rapporto diretto col "terzo occhio", che è l’"occhio della Conoscenza" (Jñâna-cakshus); il centro cerebrale corrispondente è la ghiandola pineale, che [...] riveste un ruolo particolarmente importante come organo di connessione con le modalità estracorporee dell’essere umano". La "funzione del "terzo occhio" si riferisce essenzialmente al "senso dell’eternità" ed alla restaurazione dello "stato primordiale" (di cui pure abbiamo a più riprese indicato il rapporto con Hamsa [l’Oca o Cigno simbolo del Sé], sotto la forma del quale Paramaçiva è detto manifestarsi in questo centro); lo stadio di "realizzazione" corrispondente all’âjñâcakra implica dunque la perfezione dello stato umano, e là è il punto di contatto con gli stati superiori, ai quali si rapporta tutto ciò che è di là da questo stadio". (9)

  A questo proposito così dice del Sadguru il versetto introduttivo del Pâdukâpañcaka: "Io medito sul Guru nel Fiore di loto a mille petali [...]. Egli sta nello Hamsa della testa. È lo Hamsa stesso". (10) Infatti il Sadguru vien raffigurato come sedente nel loto dai mille petali (sahasrârapadma), irradiante una luce che va portata al cuore. È dunque una figura che siede sopra la manifestazione, ad essa perciò parzialmente estranea, e tuttavia percepibile a chi vi è immerso, purché questi abbia sviluppato il "senso dell’eternità", ovvero, direbbe uno gnostico, abbia ottenuto la percezione di ciò che eccede il presente "eone", il che in linguaggio tantrico corrisponde alla manifestazione effettiva dell’âjñâcakra.

  Tale Sadguru si manifesta poi nella realtà ordinaria in vari modi non facilmente riconoscibili, sia conducendo verso il guru terreno, sia conducendo per altre vie, spesso alquanto imprevedibili. In ciò differisce dal guru terreno, il cui unico compito è invece proprio di portare al Sadguru, che è lui stesso l’unica giustificazione reale (sat) della sua funzione magistrale (guru).

  Il Sadguru si può manifestare negli upaguru, ovvero mediante uomini o situazioni che costituiscano un occasionale ammaestramento; in questo senso anche un impostore può fungere da upaguru, in quanto non le sue intenzioni vengano utilizzate dal Sadguru, ma certi suoi lati momentaneamente utili all’uomo sincero in ricerca. Upaguru può insomma risultare qualunque cosa; si può anzi dire che per l’uomo sincero qualsiasi vicenda o persona assume il ruolo di upaguru, in quanto la sincerità stessa porta il Sadguru come principale attore al centro della vicenda umana. Infatti "la vera fede consiste nella sincerità", come recita il titolo di un’opera dello Sceicco Muhammad at-Tâdilî.(11)

  In casi più rari il Sadguru si manifesta come guru irregolare, come una manifestazione assai speciale, un personaggio che sconvolge le attese, propone enigmi difficilmente risolvibili, dà spesso vita dove e mentre sembra distruggere. Nell’Islàm viene indicato come al-Khidr (oppure al-Khadir), il "Verde" o il "Verdeggiante" (corrispondente ad Elia in ambito ebraico e a San Giorgio in talune tradizioni siriache), (12) che appare nel Corano (senza essere nominato, ma l’esegesi islamica è concorde) mentre sottopone Mosè a prove che questi non supera, in quanto non sa decifrarne né accettarne in silenzio le decisioni (Sura XVIII, 65-82).


(Louis Cattiaux - "Vergine Germinativa")

  Essendo il "Verde", è collegato al rinnovamento della primavera, inclusa quella interiore; è perciò il Leone Verde che subentra dopo la "fase al nero" (opus nigrum) dell’alchimia, cioè dopo la globale distruzione di tutte le finte certezze che, indotte dall’ambiente, si ritengono erroneamente proprie. È colui che dà impulso alla germinazione, che fa fiorire il loto nello stagno fangoso, la santa percezione nel caos dell’abitudine mentale, l’antica Filosofia nel luogo delle passioni servili. Al-Khidr è l’altro Polo (indelimitabile) rispetto al Polo dell’Epoca (capo e limite della gerarchia iniziatica nel sufismo); non aiuta le strutture ed i loro aderenti bensì coloro che non fanno parte di alcuna struttura, che talora ne stanno agli antipodi. In tal senso è un messaggio fondamentale dell’Ignoto: non tutto sta nel nostro emisfero, nelle nostre classificazioni, non tutto rientra nell’atteso. Al-Khidr è il Maestro dell’Inatteso, sta di là dal Polo dell’Epoca e contatta gli amici di Dio direttamente.

  Per il fatto che non rientra nella gerarchia, non viene preso quasi mai in considerazione dagli esponenti di essa che, invero, se pur dicono di credervi, ne restringono la sfera d’azione quanto più possibile. In effetti ogni costruzione umana è limitata; ma Al-Khidr è fuor d’ogni limite: lo Spirito soffia dove vuole.

  Quel che vale in ambito islamico, vale naturalmente anche altrove; anche tra gli indù, per esempio, che parlano di una Çâmbhavîdîkshâ ovvero di una "iniziazione conferita direttamente da Çiva", ben nota, dice Agehananda Bharati citando diversi esempi, a causa della "presenza di persone che soddisfano a tutti i requisiti fenomenologici del siddha [il perfetto], o che hanno spontaneamente conseguito una condizione spirituale che può altrimenti essere conseguita solo attraverso il procedimento prescritto". (13)

  La gerarchia terrena di qualunque epoca e tradizione è costantemente piagata dall’appartenenza ad essa di un congruo numero di ipocriti, che ostacolano grandemente l’evoluzione interiore degli uomini sinceri imponendo loro pesi insopportabili che loro stessi non portano (cfr. Luca XI, 46). Tale condizione di sofferenza è ineliminabile, come da ogni nato è ineliminabile il germe della morte. Il principio manifesto in al-Khidr o nel Sadguru serve da correttivo a questa situazione. E tale principio non è restio affatto dal manifestarsi; si può invece dire che, rivelandosi come Maestro interiore, è l’origine di tutti i cammini verso la verità.

  Invero le tradizioni, le chiese, le credenze sono come falci per raccogliere il grano; ma nel campo sempre deve rimanere qualcosa da spigolare per il viandante affamato; e talvolta costui è più ricco di chi ha effettuato il raccolto, o addirittura ne costituisce il destino (il dharma), come nella Bibbia Rut è il destino di Booz, sul cui campo ha spigolato, e che sposa, insieme a lui generando gli antenati di Davide e quindi del Messia. Per questo ogni tanto vi è chi si mette alla ricerca della verità; quel po’ di mondo che ha assaggiato (le spighe abbandonate) gli ingiunge di cercarne la fonte. In altri, agricoltori comuni, che tutto il tempo raccolgono e trasformano, tale passione sembra che non nasca.

  E del resto è pur sempre un cammino difficile. Non sorregge il pensiero, né il corpo, né la tradizione, se già non si è acceso "da sé" il fuoco sacrificale sull’altare del nostro essere, della nostra vita. Il mistero di questa accensione è avvolto dal vuoto, dal nulla, da una suprema inconsapevolezza. Nella Bhagavadgîtâ è l’Auriga "Nero" (Krshna) che al "bianco" Ârjuna impone una guerra che la sua mente rifiuta. La "fiamma d’amor viva" di cui parlava Juan de la Cruz, (14) divampa imprevista e inattesa. Il Figlio dell’Uomo, il Cristo interiore, "non ha dove posare il capo" (Matteo VIII, 20) nella nostra natura ordinaria, perché invero non può poggiare sul fenomeno transitorio della vita di questo mondo colui che, nostro "capo", nostro vero maestro (Sadguru), Polo supremo del nostro vivere, col dito, come Arpocrate, ci impone un arcano silenzio, mentre ci indica la Tenebra immanifesta.

 

Dario Chioli    

  

Il maestro, visitando la dimora del discepolo, ruppe tutto salvo una bottiglia, poi bruciò ciò che poteva bruciare, eccetto le Sante Scritture, in seguito spense le ceneri con dell’acqua, eccetto un tizzone. Infine aprì tutte le finestre, eccetto quella che guardava verso il Nord, poi uscì dal Sud senza dire una parola.
                  Louis Cattiaux, Il Messaggio Ritrovato, XXI-28'

NOTE

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(1) Uppaluri Gopala, La mente è un mito - Conversazioni sconcertanti con un uomo chiamato U.G.. Aequilibrium, Milano, 1990, pp. 15, 19, 20.

(2) Carl Gustav Jung, Marie-Louise von Franz, Joseph L. Henderson, Jolande Jacobi, Aniela Jaffé, L’uomo e i suoi simboli. Longanesi, Milano, 1980, p. 146.

(3) `Abd al-Karîm al-Jîlî, L’Uomo universale - Antologia dall’opera Al-Insân al-Kâmil. A c. di Titus Burckhardt. Ediz. Mediterranee, Roma, 1975, pp. 8-9.

(4) Çrî Nisargadatta Mahârâj, Io sono Quello. Rizzoli, Milano, 1981. 2 volumi. Vol. I, p. 54. Perfettamente concordi sono le affermazioni di Ramana Maharshi riportate da David Godman al capitolo 8 ("Il Guru") di Sii ciò che sei - Ramana Maharshi e il suo insegnamento (Il Punto d’Incontro, Vicenza, 1988).

(5) Von Franz, op. cit, p. 176.

(6) René Guénon, Études sur l’Hindouisme. Éditions Traditionnelles, Paris, 1983, p. 39.

(7) Arthur Avalon, Il Potere del Serpente. Ediz. Mediterranee, Roma, 1968, p. 108.

(8) Guénon, op. cit., nota a p. 39.

(9) Guénon, op. cit, pp. 39-40.

(10) Avalon, op.cit., p. 368. Riguardo alla localizzazione del Sadguru nel sahasrârapadma, considerando che tale "loto" corrisponde al riflesso nella natura umana degli stati superiori dell’essere, pertanto del "Cielo", può essere curioso paragonare quanto dice Gesù in Matteo XXIII, 8-10: "voi non fatevi chiamare rabbì, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno padre sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare maestri, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo".

(11) Quest’opera dello Sceicco Muhammad at-Tâdilî (Ad-Dîn an-nasîha) è stata tradotta in francese e quindi in italiano con il titolo La vita tradizionale è la sincerità nella "Rivista di Studi Tradizionali", Torino, 1968, nn. XXVI-XXVIII-XXIX.

(12) Cfr. A. Augustinovic, "El-Khader" e il profeta Elia. Studium Biblicum Franciscanum, Gerusalemme, 1971.

(13) Agehananda Bharati, La tradizione tantrica. Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1977, p. 160.

(14) Cfr. Juan de la Cruz, Poesie. Trad. di Giorgio Agamben. Einaudi, Torino, 1974, pp. 10-11.

 
 
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