Un illustre sconosciuto: Lorenzo Ventura

di Stéphane Feye



La pietra nascosta nelle tenebre e l’ombra della morte.
Giobbe

Introduzione

            Anche quelli che studiano l’Alchymia ci mettono talvolta diversi anni a rendersi conto della pletorica quantità di trattati (senza contare i manoscritti) di cui la famosa Pietra Filosofale ha suscitato la pubblicazione. Vero è che, dall’esposizione “l’Alchimie” organizzata dal “Credit Communal de Belgique” organizzata a Bruxelles nel 1984  e la pubblicazione in quell’occasione del notevole catalogo di J. Van Lennep, l’abbondanza sia bibliografica che iconografica dell’insegnamento alchemico non può più essere negata. Vorrebbe ciò significare che la sublime Pietra dei Filosofi sia meglio conosciuta nella sua realtà?

            Malgrado tante testimonianze, molti mistici o masse di mediocri negano la sua materialità, optando per teorie disincarnate o sapienti che non colmano alcun senso e non guariscono nessuno. Altri, al contrario, credono a questa Pietra, ma la desiderano “spessa” e sono finalmente frustrati dal suo possesso dalla loro propria avarizia.

            Non faremo qui riferimento alcuno a quanti hanno decretato una volta per tutte la sua non possibilità. È bene rispettare l’atto di fede ed i dogmi di ciascuno.

            Solo alcuni rari (rari nantes, direbbe Virgilio) che amano Dio ed il loro prossimo la assaporano in silenzio, ringraziando la Divinità di questo Dono concesso che così magnificamente li colma.

            Esistono anche alcuni onesti ricercatori che, anche se studiano i testi e la chiedono nelle loro preghiere, non la conoscono ancora. Non farà certo loro male imparare almeno ciò che essa non è, per essere così liberati dalle trappole che hanno teso i Filosofi a tutti gli indegni.

            È a questi (tra cui speriamo essere contati!) che intendiamo rendere servizio offrendo la nostra traduzione dei due primi capitoli di un trattato redatto in latino e pubblicato per la prima volta a Basilea nel 1571. Possediamo una fotocopia di questa editio princeps che abbiamo consultato qualche anno fa alla Biblioteca Municipale di Grenoble. È di questa edizione che ci siamo serviti, visto che Ferguson[1] la segnalava come rara, pur avvalendoci contemporaneamente di quella del Theatrum chemicum[2], a causa di qualche errore o omissione qui corretti o colmati.

            L’opera, dedicata a Ottone Enrico, Principe Palatino, contiene tre trattati tra cui quello di Ortolano chiamato Garlandus[3]. Il nostro si estende dall’inizio fino alla pagina 200 ove si trova, in italiano stavolta, un curioso Enigma della Pietra fisica redatto dall’autore stesso, un veneziano dal denominato Lorenzo Ventura, di cui pare non si sappia nulla[4]. Infine, non resistiamo al piacere di dare una traduzione della pagina ultima (p. 203) nuovamente redatta in latino: 

L’alchimia che parla di se stessa.

Sono io ad essere il lampo celeste della saggezza angelica, la virtù del guerriero, il termine della macchina del mondo, l’opera della gloria regale, più eccellente di tutte le scienze di questo mondo, spiraglio segreto di Dio, sorella della filosofia, grazia dei Re, forza dei Signori, sudore dei Profeti, gelosia dei filosofi, tesoro incomparabile, specchio di allegria, fuga dalla tristezza, madre delle virtù, pianta dei piedi della natura umana. Che siano dunque ricacciati quelli che devono essere ricacciati e che i giusti siano giustificati verso il meglio. Che la mia voce, allegria salutare, non sia intesa che nelle tende dei giusti. Siano espulsi dunque, il malvagi peccatori, i lascivi, gli avari, ed i prodighi, per timore che rigurgitanti di piaceri grazie a questi segreti dei segreti, essi non commettano eccessi per perpetrare le peggiori infamie.

            Regnante io regnerò, ed il mio regno non avrà fine per tutti quelli che vengono a me e che mi ricevono sanamente, ingegnosamente e con costanza.

Sia deciso di scartare il Profano lungi da qui.
 

 

Questo dono di Dio, scintillante, nessuno può possedere se non purifica il suo spirito di fronte al Grandissimo Dio lui stesso. Cioè con spirito e cuore puri e totalmente semplici.

 

 

Digne ne fut d’être en table du dieu
Et n’eut au lit de la déesse lieu
.        
Virgilio Tradotto da Rabeleis

 Testo tradotto e presentato da Stéphane Feye


LORENZO VENTURA

di Venezia, docteur ès Arts et Médecine

Metodo per confezionare la pietra filosofica

 

Libro Uno

Ad Ottone Enrico

Principe Palatino

________

 

con privilegio di Sua Maestà l’Imperatore

Basilea, 1571

  



CHE L’ARTE D’ALCHYMIA È VERA



Capitolo I
 

Numerosi sono quanti pensano che l’arte d’Alchymia non sia un’arte vera. La loro opinione è fondata su due argomenti. Primariamente, perché Aristotele dice al libro IV delle Meteorologiche[5]: “Che gli artigiani dell’alchimia sappiano che non si possono trasmutare le specie dei metalli”. Secondariamente, perché tutti quelli che lavorano a questa arte non li vedono fare altro che trasmutazioni sofisticate. Non vedono nessuno farne di autentiche. Da cui essi stimano e credono che ciò che non vedono fare da nessuno non può effettivamente neppure essere fatto da nessuno.

Tuttavia, nessuno di questi due argomenti fondamentali obbliga questa arte preziosissima ed eccellentissima ad essere [dichiarata] falsa. Il primo argomento di questo contraddittorio in effetti non è sostenibile. Poiché è certamente vero, come dicono i filosofi Alphidius ed il gran Rosario, che non sono le specie delle cosa che sono trasmutate, ma gli individui di alcune specie che possono trasmutarsi gli uni negli altri. E ciò risulta evidente all’occhio soprattutto in quelli che hanno una corrispondenza tra di loro rispetto ad una o due qualità, come si verifica per gli elementi. Così la terra produce la pietra, il legno si fa cenere, e dalle pietre si fa il vetro etc. Nello stesso modo ciò accade nei metalli, perché tutti i metalli hanno in comune una sola materia che è un argento vivo con il suo zolfo. Ed è solo a causa di una maggiore o minore digestione che differiscono i metalli; questa si fa con la maturazione del loro zolfo per mezzo di una decozione. Poiché è lo zolfo che è la forma dei metalli, e dell’oro principalmente; non, certamente, lo zolfo del volgare, ma ben “alterato” come dice il filosofo Bonus[6].

Da tali affermazioni si può concludere che se, per mezzo dell’arte, può confezionarsi una medicina che possieda in se stessa la virtù e la proprietà del citato zolfo minerale alterato, un tale medicina fatta per mezzo dell’arte potrà trasformare i metalli imperfetti e l’argento vivo nella natura di quelli che sono perfetti. Ecco perché Iohannes Scott[7] e molti altri filosofi dicono e concedono che è vero che i metalli non possono essere trasmutati in un qualche modo o ingegnosità se non sono prima ricondotti alla loro prima materia.

Orbene, la prima materia di tutti i metalli è un argento vivo ed uno zolfo, non nella loro propria natura, ma certamente alterata, ovvero convertita in vapore. Così dunque , la prima materia dei metalli è un vapore umido untuoso contenente in se stesso la natura di ciascuno dei due: del suo zolfo ed argento vivo. Ne deriva necessariamente che se per mezzo dell’arte si può estrarre così  il vapore untuoso delle cose in cui esso si trova, e che lo si trovi simile a quello che, nelle miniere della terra, genera i metalli, si potrà confezionare una medicina che, proiettata sui semplici corpi imperfetti e sull’argento vivo, li conduca ad un vero corpo metallico la cui perfezione è spinta più lontano di quella di qualsiasi corpo naturale.

Occorre tuttavia sapere che tale medicina si estrae da alcune cose più facilmente e più abbondantemente, mentre [invece] da altre più difficilmente e più imperfettamente, sia che si tratti degli stessi metalli o di qualche altra cosa. Ma ciò può farsi che se le cose non sono dapprima corrotte mediante putrefazione e che, con una dovuta decozione e lunga digestione, esse acquisiscano un’altra forma più nobile[8].

Quanto al secondo fondamento che si vuole opporre come argomento, questo non è affatto limitante, ed il nostro ragionamento è quello che Geber da nella sua “Somma della grande perfezione” al capitolo XI, ove tratta della confutazione degli argomenti di quanti negano semplicemente l’arte. Ed eccolo: nel loro modo di argomentare contro, nessuna necessità può obbligare chicchessia a credere che quest’arte non sia vero, a condizione di prestarvi attenzione. Poiché il loro argomento è basato su una comparazione dal più verso il meno, e la conseguenza che essi ne traggono corrobora la loro fantasia ed il loro errore. Questi non contengono alcuna conseguenza necessaria, ma al massimo una contingenza in relazione a diversi casi[9]. Inoltre, è certo che, nel nostro tempo, si trovano assai pochi filosofi che conoscono i segreti della natura. Al contrario, essi omettono con negligenza di ricercarli e di conoscerli. Ecco perché essi non sanno migliorare e perfezionare le cose imperfette con le operazioni dovute. E la maggior parte sono incapaci di discernere le cose adatte dalle inadatte[10], le prossime dalle lontane. È questa la causa per cui molti sviano e perdono il senso. Gli antichi filosofi, loro erano di un genio assai più profondo ed, operando, erano più applicati. In effetti, come dice Ludovico Lazarelli[11], per conoscere i profondi segreti della natura i Filosofi hanno talvolta osato scendere negli antri, soggiornare in foreste e montagne per scrutare gli astri con un genio artista, per osservare quali potenze essi abbiano, quali luoghi della terra sono adatti ai metalli, quali sono le materie e quali sono le distinzioni che possono farvisi. Ed è dunque per la loro propria utilità e per quella dei loro figli che, con la loro lunga investigazione, questo magistero è stato trovato. Perché i filosofi ed i loro figli sono i soli a comprendere la forza della natura ed a non ignorare la sua disposizione.

Così dunque, considerato che molti grandi filosofi affermano che quest’arte trasmutatoria è fattibile e che hanno lasciato dietro di loro molti libri scritti, è iniquo e stolto negare la verità dell’arte stessa, neppure se nessuna ragione, né nessuna esperienza ne testimonianza lo provano. Ecco perché Morieno ha ben detto che c’è una grande distanza tra il saggio e l’insensato, tra il cieco ed il vedente, ed il giudizio è identico per colui che opera male e l’ignorante. Da ciò si conclude dunque che l’arte è vero.

  


CHE QUELLI CHE CREDONO NELLA VERITÀ DELL’ARTE NON

TUTTI SANNO USARNE, NÉ OPERARE SECONDO [I SUOI PRINCIPI]



 Capitolo II 

Ci sono alcuni tuttavia che credono fermamente nella verità di quest’arte mobilissima, ma non hanno tentato di verificarne la verità attraverso l’esperienza e non sanno provarla. Qualcuno tra questi, assai debole, consente onestamente alla verità e vi aderisce, ma vinto dalla moltitudine delle sentenze e dalla grandezza degli autori, cede l combattimento.

Ma esiste, del resto, una cosa che trascina facilmente tutti a credere: è la voglia di possedere e l’avidità delle voluttà. La voluttà da sola in effetti, produce una enorme quantità di cupidi. È ciò che dice ancora lo stesso filosofo Ludovico Lazarelli: … gli uomini che si danno alle delizie terrestri, desiderano anzitutto le delizie terrestri e, per acquisirle, non rinunciano ad alcuna opera, ad alcuno lavoro [12], secondo quel famoso verso di quello straordinario profeta che fu Virgilio:

A cosa non obblighi tu i ventri mortali
o fame sacra dell’oro?
[13]

È dunque perché tutti gli uomini cercano le delizie e tengono a poter vivere bene nella felicità che quasi tutti i piaceri di questo mondo possono soprattutto acquisirsi con le ricchezze, secondo l’adagio comune: tutto obbedisce al denaro. Ed al capitolo V delle Etiche il Filosofo[14] dice: Per fare ciò è stata inventata la moneta, affinché questa sia per ogni uomo come una garanzia  di possedere, in suo cambio, tutto ciò ch’egli vuole.

Orbene, queste sono le più grandi ricchezze che sono promesse dal magistero di quest’arte: se possibile del vero oro, del vero argento e l’uno e l’altro in gran quantità senza gran lavoro. Possono fabbricarsi delle monete che consentono di possedere tutto. Ecco perché gli uomini, tanto i savi quanto i non savi, credono facilmente, ambiscono a sperimentare, e sperimentando di acquisire. Ce ne sono pochi tuttavia che raggiungono, lavorando, la verità dell’arte. C’è una ragione a questo, oltre quelle già esposte: è l’ignoranza dei segreti e la mancanza di studio. E la ragione speciale di ciò è pure lei doppia.

La prima è il discorso. Avicenne dice: Ho ben osservato i libri di quelli che confermano l’arte, ed ho trovato che essi erano vuoti dei calcoli e dei ragionamenti che si trovano [ordinariamente] in ogni arte. Ma ho invece notato che la maggior parte delle cose che essi contengono erano simili ad una alienazione, cioè che si tratta di metafore o di similitudini. Pertanto, non appena mi sono ricondotto ai principi naturali, lì ho saputo che l’arte era vero.

La seconda ragione è il miscuglio del vero e del falso. È ciò che ha fatto dire ad Ernaldo nel suo “Testamento”: I filosofi hanno posto due misure nei loro libri: una vera ed una falsa. Quando si tratta del vero, essi lo hanno messo in parole oscure per non essere compresi che dai figli della dottrina: per timore che non sia dati a degli empi con un modo d’agire profano. Quanto al falso, essi l’hanno avvolto con parole intelligenti. Ed è questo che si persegue comunemente operando su del Mercurio, sullo Zolfo, dell’Arsenico e perfino sui corpi essi stessi, e non hanno trovato niente. Numerosissimi sono dunque quelli che in quest’arte lavorano invano. Poiché non possono né trovare con la loro propria ingenuità le cose opportune, né essere in condizione di comprendere e di estrarre una sentenza vera da quella degli altri. Essi peccano sia nella dovuta materia, sia in una operazione non adeguata. Ecco perché sarebbe opportuno consigliare a tali persone di sospendere le loro [attività] manuali, astenendosi dall’operare, oppure di leggere con maggiore diligenza i libri e di applicarsi a comprendere pienamente ciò che hanno letto. È ciò che si legge nel libro di Saturno: I filosofi non hanno scritto i loro libri che per i loro figli, ed io chiamo “loro figli” quanti comprendono perfettamente le loro affermazioni e non alla lettera.

In effetti, l’operazione secondo l’intenzione della lettera è dissipazione delle ricchezze e perdita di tempo.
 


Oh  voi  che  avete la pelle nera ed il cuore rosso,  
non  farete  anche  brillare sul  mondo la purezza   
 del vostro occhio ed il biancore della vostra luce?  
 Non riceverete santamente il Signore tra voi e non
troverete un posto ai suoi inviati?                            
Louis Cattiaux , M+R, XXVII-33'

 

Stéphane Feye         


[1] Ferguson, Biblioteca Chimica, tomo II, p. 505 e tomo I p. 420. Ed. Kessinger publishing company – s.d. Montana (U.S.A.)

[2] Theatrum Chemicum, vol. II, p. 215. Ristampato dall’edizione del 1659. Ed. Bottega d’Erasmo, Torino, 1981.

[3] Cfr. Emmanuel d’Hooghvorst, Le fil de Pénélope, Tome II, p. 121. Ed. La Table d’Emeraude, Parigi, 1998.

[4] Ferguson (op.citata) non lo cita in alcun caso. Van Kennep (op. citata) neppure

[5] Pensiamo che si faccia allusione piuttosto a Meteore, 3-6 (n.d.t)

[6] Petrus Bonus Ferrariensis (Pietro Antonio Boni da Ferrara), autore di “Margarita preziosa Novella” trattato che, secondo alcuni, sarebbe stato redatto intorno al 1330. Altri affermano che l’autore viveva nel XVesimo secolo.

[7] Iohannes Duns Scott: celebre teologo (1265-1308) soprannominato “il dottor sottile”.

[8] Sembra, secondo la testimonianza di numerosi autori, che tale digestione sia molto più lunga di quanto si immagini leggendo i testi superficialmente (n.d.t.).

[9] Tutto questo passaggio, che speriamo non aver reso troppo arduo ad intendersi, è composto in linguaggio tecnico della logica.

[10] Adatti e non adatti  - i termini latini “aptus” ed “ineptus” hanno come primo senso “rilegato“ e “non rilegato”. E’ difficile da rendere in francese.

[11] Tale Ludovico Lazarelli ci è assolutamente sconosciuto.

[12] I termini “opera” e “lavoro” sono, evidentemente, stati scelti dallo stesso Virgilio: “hoc opus, hic labor est” (Eneide. VI-128)

[13] Eneide, III-56.

[14] Si tratta di Aristotele: Etiche V, capitoli 5-14

 
 
 
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